Retention Retention Retention!

Pubblicato da: Daniela Belotti Categoria: Lavoro e mentoring tag: ,

Prendiamo spunto da una ricerca interessante, quella di  FiordiRisorse – Una Nuova Cultura del Lavoro , per riflettere sul valore della retention per un’azienda. 

IL CAMPIONE:

  • 1073 intervistati
  • 82% appartenenti a pmi, grandi aziende e multinazionali
  • 67% nord italia
  • 80%  impiegati e manager 
  • 76% laureati.

Una ricerca svolta in totale libertà di espressione, al di fuori da condizionamenti e paura di ritorsioni.

I risultati sono la fotografia sincera e senza filtri di come molte delle nostre aziende stanno affrontando temi come l’employer branding, la formazione e la valorizzazione delle persone che ne fanno parte . Gli annunci di moda tipo “people first”, le “persone al centro” e così via riguardano evidentemente solo una piccola parte delle realtà aziendali.

Sarebbe interessante sapere quante sono le aziende di cui gli intervistati fanno parte per avere dei dati più puntuali, ma i risultati sono comunque  interessanti.

PRIMO PUNTO: RETENTION QUESTA SCONOSCIUTA

Il primo dato eclatante che emerge è che il 58% degli intervistati non si ritiene sufficientemente remunerato per il lavoro che svolge e le responsabilità che si assume in azienda e il 52% non si sente valorizzato dal suo responsabile.

Se un approccio di questo tipo poteva reggere con i baby boomers, cresciuti con l’idea del posto fisso e la fedeltà aziendale, non è più sostenibile con i millenials e le nuove generazioni che cercano la valorizzazione delle loro competenze economica e non solo. 

Il rischio è di perdere i migliori profili, che andranno a cercare altrove situazioni più stimolanti e più remunerative.

E quelli che restano? perlopiù demotivati e privi di stimoli. 

 

SECONDO PUNTO PER LA RETENTION: la mobilità interna

Il 55% degli intervistati non è a conoscenza di processi di mobilità interni all’azienda di cui fa parte:

Fa dedurre, con una certa preoccupazione, che le aziende cercano all’esterno figure che potrebbero avere internamente, che conoscono già la stessa azienda e che sarebbero già operative in nuovi ruoli. Le aziende non solo spendono di più per la selezione di una figura esterna, ma perdono l’opportunità di motivare e far crescere risorse interne

Il processo di selezione e inserimento di una nuova figura ha un costo stimato da Atd pari a 1,5 volte il costo del suo stipendio lordo di un anno. Ancora di più se si tratta di profili particolari o molto specializzati.

È facile fare due conti!

Se poi al costo di selezione aggiungiamo la perdita di produttività derivante dal disengagement il gioco è fatto.

Secondo Gallup il 65% dei lavoratori in Usa è poco o non coinvolto e in Europa la percentuale sfiora l’80%

employee engagement

 

TERZO PUNTO: la formazione

Il 50%  dei partecipanti all’indagine non è coinvolto in percorsi di formazione interni.

Uno su due viene lasciato senza aggiornamento o miglioramento delle proprie skills!

E dobbiamo ricordare che ormai le competenze tecniche, le cosiddette hard skills, sono rese obsolete dall’innovazione in 3-5 anni.

E la maggior parte della formazione è inerente alle materie obbligatorie come la sicurezza, o si rivolge ad un numero esiguo di collaboratori, tralasciando spesso i manager perché “troppo occupati”.

diventa fondamentale individuare percorsi formativi “outsider” di cui il nostro Paese è ricchissimo anche per i manager, sganciandosi da una formazione
ancora teorica, accademica ed erogata esclusivamente da Business School poco inclini all’innovazione e al rinnovamento.
Bisogna superare la pigrizia nel rivolgersi ad Enti di formazione consolidati e volgere lo sguardo a modelli più moderni, meno frontali, più esperienziali

Anche la non formazione si ripercuote sul tasso di retention, perché i millenials cercano situazioni in cui possano crescere professionalmente, che siano stimolanti e formative. 

 

QUARTO PUNTO PER LA RETENTION: lo scontro generazionale

Il 64% degli intervistati non è a conoscenza di progetti di reverse mentoring in azienda. 

Le aziende hanno interpretato la crisi degli ultimi anni allontanando i profili senior e rimpiazzandoli con figure junior, più economiche, pensando di introdurre più dinamismo.

Ci si è dimenticati del bagaglio di competenze e di conoscenza delle logiche aziendali che i  silver workers portavano con loro, della ricchezza che questi rappresentavano per l’azienda, pensando di rimpiazzarli facilmente con profili più giovani buttati allo sbaraglio. L’effetto è stato duplice:

  • perdita di competenze interne
  • demotivazione e fuoriuscita dei giovani sottoposti a sfide eccessive

Introdurre in azienda percorsi di reverse mentoring consente di mettere a sistema le competenze dei senior, fatte di esperienza, conoscenza del mercato e soft skills. E trasferirle agli junior, ricevendo in cambio conoscenze più fresche, innovative e tecnologiche.

Il risultato aggiuntivo è il superamento dello scontro a cui si assiste oggi, fatto da generazioni che faticano a comunicare, non conoscendo le reciproche potenzialità, non si stimano e soprattutto non si fidano uno dell’altro.

Quindi se consideriamo che il mentoring è una metodologia di sviluppo organizzativo basata sullo scambio di esperienze e sul fare, che porta un aumento della retention mediamente del 25% ( e anche per questo ha un Roi sempre positivo), rende le persone che vi partecipano 5 volte più adatte ad una promozione e, come abbiamo scritto in altri articoli, più produttive dell’88% perché più coinvolte, si tratta solo di passare all’opera.

 

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